Per molte domeniche sosteremo sull’immagine del pane. Pare che per l’evangelista Giovanni sia tutta una questione di cibo… Lo sanno bene certi missionari che prima di parlare di Gesù, riempiono la pancia di chi ha fame. Prima di parlarmi di Gesù, toglimi la fame. Eppure il problema – dopo – diventa il doppio. È infatti troppo facile credere con la pancia piena. Bisogna ridurre l’intestino a un serpente e affilare i denti per mangiare Dio. Ripassiamo un po’ la storia della salvezza. Nel deserto il mormorio (“Nel deserto la comunità d’Israele mormorò contro Mosè e contro Aronne”, Es 16, 2) ha il sapore del sibilo: le lingue degli uomini scodinzolano come serpenti. Le loro dichiarazioni diventano velenose come morsi di vipere incattivite. Mosè teme per la sua vita.
Nel deserto – che come la montagna è il luogo dell’apparizione: perché dove l’uomo è diradato, dove l’uomo è nel rischio, si palesa Dio – non si mormora, si ascolta. Anche le pietre, nel deserto, hanno orecchie e lo scorpione scintilla come il nastro che lega le sacre preghiere. Se non crederete voi, crederanno questi sassi!
L’altra opposizione è quella, più sonora, tra popolo e pochi, tra tutti e scelti. Dio trasporta Israele – comunità solida come un solo volto, una sola voce, ma disgregata nello schianto del pettegolezzo – nel deserto, verso la Promessa. Eppure, parla a Mosè, al solo, il mediatore, l’intercessore. Gli israeliti si preoccupano solo di dar vocabolario allo stomaco: hanno fame. La fede è bilanciata dalla soddisfazione che ne trae l’intestino. La preghiera nasce quando il bambino ha succhiato il latte e fa il ruttino!! A pancia piena siamo tutti disposti a credere in un dio – dopo aver divorato il visibile, possiamo credere all’invisibile.
Al contrario Gesù oggi è qui a dirci che Dio crea la vita dove non c’è vita, nel deserto. Che lancinante ironia: Israele riconosce Dio perché Dio concede il cibo dove cibo non c’è. La manna è la dolcezza nell’impervio e nell’aspro. Di mattina, il deserto, ricoperto di brina, pare una lastra di luce. Ribadiamolo ancora, il cristianesimo è una questione di cibo. Come gli israeliti nel deserto, quelli che seguono Gesù – ma non sono suoi seguaci – vogliono soddisfare le voglie dello stomaco (“mi cercate… perché avete mangiato e siete stati saziati”, Gv 6, 26). Per questo, per approcciare Dio, è decisivo il digiuno, convertire l’intestino in un serpente che dorme.
Rivestitevi dell’uomo nuovo” (Ef 4, 24), dice Paolo. L’uomo deve cambiare pelle, come il serpente, e lasciare la carcassa al favore dei necrofili. “Impegnatevi non per il cibo che muore, ma per quello che resta per la vita eterna, che vi darà il Figlio dell’uomo” (Gv 6, 27). Il cibo è equivalente al denaro: è ciò che sazia, che dà una vita ‘piena’. Ma non bisogna essere mai sazi, mai paghi – occorre ripiegare, correndo, verso la rinuncia. Bisogna fare spazio, nel corpo, a Gesù: se il corpo è già pieno, Gesù non accede, non accade.
Credere è cadere – sapendo che uno, alla fine, prenderà il calco del tuo viso, proprio del tuo. “Sono il pane della vita, chi viene a me non ha fame, chi crede in me non avrà mai sete” (Gv 6, 35). Il cibo che offre Gesù è il corpo, il suo. Gesù ci implora di mangiarlo. Chi ha il coraggio di mangiarlo? Chi ha la forza di non volere altro che quel cibo? Il cristianesimo è radicale, è concreto: sostituire al cibo terreno il corpo di Cristo, il solo cibo. La vita è deserto: per evitare che l’uomo divori il prossimo suo, Gesù si offre, mangiate me. Affilare i denti per mangiare Dio. Richiede addestramento.