Questi sono i nomi

In una catechesi nell’ottobre 2006, papa Benedetto ebbe a dire: «Gesù chiama i suoi discepoli e collaboratori dagli strati sociali e religiosi più diversi, senza alcuna preclusione. A Lui interessano le persone, non le categorie sociali o le etichette! E la cosa bella è che nel gruppo dei suoi seguaci, tutti, benché diversi, coesistevano insieme, superando le immaginabili difficoltà: era Gesù stesso, infatti, il motivo di coesione, nel quale tutti si ritrovavano uniti. Questo costituisce chiaramente una lezione per noi, spesso inclini a sottolineare le differenze e magari le contrapposizioni, dimenticando che in Gesù Cristo ci è data la forza per comporre le nostre conflittualità».

Oltre a questa libertà che soggiace però a dei criteri biblici, storici e culturali (dodici come le tribù, tutti maschi, la scelta della istituzione), c’è tutto lo stile di Gesù. Lui sa benissimo che questi uomini da soli non ce la potranno fare mai, ma li chiama lo stesso. Li chiama. Oltre alla vocazione, c’è anche l’istituzione. E li costituì apostoli, non perché semplicemente facessero apprendistato…ma perché “stessero con lui”.

Dare un nome poi, nella Scrittura, è – come dire – frase tipica. Significa conoscere intimamente la persona. Il nome era la persona, non un solo suono di sillabe. È tutta da riscoprire la teologia del nome!

Com’è bello sentirci chiamare per nome! Fin dal primo rito che la chiesa opera nell’itinerario di fede, si inizia con un dialogo: “Che nome date a questo bambino?”

Il nome deve essere anche un augurio, secondo me. Di vita buona. Protetta. Scegliamolo bene per i nostri figli. Perché attraverso di esso, noi siamo scritti nei cieli. Da come pronunciamo un nome, si capisce che tipo di relazione abbiamo con la persona.