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Il carceriere

Carceriere

Sono intriganti queste figure minori presenti nel Nuovo Testamento. Se ne parla magari in pochi versetti e poi più, ma lasciano una scia interessante, un insegnamento sovente indimenticabile. Come quello che traggo dalla prima lettura di questo ultimo lunedì di Pasqua.

Arrestati, flagellati e bastonati, gettati in gattabuia Paolo e Sila a Filippi vivono un’esperienza decisamente straordinaria. A volte certe conversioni sono come un terremoto anche se avvengono nella imprevista situazione di angoscia e morte. Mi ricorda il card. Van Thuan che riesce a convertire il suo secondino durante i lunghi anni di progionia.

Un vero terremoto (chiaro riferimento alle teofanie veterotestamentarie per sottolineare l’aspetto misterico e soprannaturale di certi fatti) permette ai prigionieri di approfittare della situazione di confusione: I muri crollano, le porte si aprono, si sganciano le catene dai vincoli e sarebbe ovviamente la libertà, la vita.

Ma il racconto si ferma di fronte ad un esempio ricco di umanità; di fronte al senso di responsabilità forte, secondo me apprezzato dal Signore, anche Dio si ferma. I magistrati accaniti avevano messo una guardia speciale e si erano raccomandati tanto. Perché Dio infatti – mi chiedo – può desiderare la vita di uno e la morte dell’altro? Vabbè che nel vangelo sta scritto: “uno sarà preso, l’altro lasciato” … Ma in questo caso a me pare un concetto troppo mondano, non illuminato certo dalla carità evangelica: lasciamolo dire ai pagani appunto…“Mors tua, vita mea”.

Paolo e Sila si saranno accorti della serietà e sensibilità della guardia. Vengono messi di fronte ad un tentativo di suicidio. Nella Bibbia ce ne sono di casi, come la scelta del re Saul che sa di avere perso il favore divino. E là Dio lascia fare. Qui no.

E mi commuove l’istintivo intervento di Paolo che gli urla: “Non farti del male, siamo tutti qui”. Cioè, nessuno è scappato. Non ti possono far niente. Pare che voglia dire anche: se vuoi, ci riconsegniamo. Dio non può volere la mia vita, la mia liberazione a prezzo della tua morte. Il fine non giustifica mai i mezzi.

Quante pseudorivoluzioni sono andate a finir male perché fondate su questo perdente concetto. Dio vuole che tutti si salvino! Si può vivere tutta una vita e vagolare nel buio. Non accorgersi di non avere nessun fondamento morale.

Stupendo il passo successivo. Il capo delle carceri si fa dare un lume. Vuole capirci. Vuole vedere se è proprio così. Se c’è un altro modo di vivere che non sia fondato solo sull’interesse, sul tornaconto, sul do ut des. La sua è una domanda tipicamente etica: “Che cosa devo fare per salvarmi?”

Dopo aver verificato che i prigionieri erano davvero ancora al loro posto, decide…lì sul posto. Convertirsi è un dono ma spesso coincide con una decisione, cioè un taglio…decisamente netto. Il carceriere tutto tremante cade ai piedi degli apostoli e decide per il Signore. In pochi tratti diventa anche il “buon samaritano” che si piega sulle loro ferite. Al di là dell’episodio fin troppo trionfante, ci sono tutti gli elementi – proprio tutti – per descrivere la vita della primitiva comunità apostolica con quella bella immagine finale della tavola imbandita, che lui stesso apparecchia.

Subito penso alla gioia dell’Eucaristia.