È come un rubino di rosso scarlatto, questo gioiellino di Matteo. Un anello con incastonato una pietra preziosa. Il vangelo del quattordicesimo lunedì del tempo ordinario parla di due vicende che si intrecciano.
Due dolori si incrociano, due storie, due pene che il Signore fa sue. Una dodicenne morta, la figlia di Giairo, e una donna che ha perdite di sangue da dodici anni. Il numero dodici la fa da padrone.
Come protagonista è l’impurità; la morte e le emorragie. Al centro, considerata impura, c’è una donna condannata da un giogo pesante. Perde sangue da anni. Secondo le rigide prescrizioni rituali è impura: non può toccare nessuno senza contaminarlo. Impura: non ha una vita affettiva, di relazioni, nessuno l’abbraccia, nessuno ha rapporti sessuali con lei. La sua vita è un abisso di solitudine e di sensi di colpa.
E questo da dodici anni. Dodici, in Israele, è il numero della pienezza, come i dodici mesi che compongono un anno, come le dodici tribù. Il suo è un dolore perfetto. È il dolore di tutto Israele. In Gesù Cristo tale dolore diventa quello dell’umanità intera. E per questa umanità – che siamo noi, impuri per eccellenza – Gesù la lascia fare. La donna trasgredisce la legge, con timore e cautela. Tocca il mantello del Maestro, o meglio – come diceva il card. Martini – gli tocca “il lembo del mantello”.
Lo fa con speranza certa e intraprendenza inaudita. Per questo accade l’inverosimile: non è lei a contaminare il Signore, è lui che contamina lei e la purifica! Ora non è più la carne a perdere sangue, perennemente avvolta nel pallore più inquietante, è Il rubino ad accendersi di un luccichio risplendente. Splende come non aveva fatto mai! Così come per la ragazza che, da morta, contamina chi la tocca. Il corpo imputridisce. Il Signore la prende per mano e le restituisce la vita! Non è la morte a contagiare la vita, la tenebra a invadere la luce, ma è la vita che strappa al buio la ragazzina. Il Signore ci strappa da ogni tenebra, da ogni morte, da ogni peccato, da ogni impurità. Noi temiamo sempre di lordarlo. È lui che invece contamina noi, non viceversa. Lasciamoci toccare allora, senza indugio!
In Terra Santa, da un colloquio privato con Martini mi portai a casa questa immagine, guarito da una resurrezione inattesa: “Non temere…anche una colomba bianca quando ha sete, si precipita in una pozzanghera di fango lordandosi. Si disseta come può. Ma subito riprende il volo… si alza nuovamente pura, nell’azzurro del cielo”.
“Avanti! Avanti! – mi disse – senza paura!” Era il febbraio del 2008.
Immagine: La guarigione dell’emorroissa, catacombe dei Santi Marcellino e Pietro, Roma [© Pontificia Commissione Archeologia Sacra, Roma]