I discepoli chiedono a Gesù di insegnare loro a pregare.
Il messaggio è chiaro. La preghiera è qualcosa che si impara, non nasciamo già capaci. Eppure io ricordo che il card. Martini sosteneva che ognuno aveva il suo modo proprio di pregare, docile all’azione dello Spirito che sa suscitare vita anche dalle ossa morte.
Vi confesso che rimango molto disgustato (sì, chiedo scusa ma è la parola giusta) da chi viene a confidarmi che non sente mai il bisogno di pregare. Una volta ne rimasi scandalizzato perché a dirmelo fu una bimba delle elementari. Lo confessava come un peccato: “Don Massimo, non prego mai” … ma aggiungeva, non ne sento il bisogno.
Rimasi veramente male.
La preghiera dovrebbe essere qualcosa che ci affascina, ci attira, come quando viene l’acquolina in bocca davanti ad un cibo squisito. Non si esce dalla preghiera senza aver cambiato la qualità della vita. Una dimensione quotidiana di dialogo interiore che ti tiene vivo. Intuiamo questo profilo alto, ma non sappiamo raggiungerlo.
Ci sembra di balbettare, di riempire di parole il silenzio (di cui abbiamo letteralmente terrore) … di essere lì, ma troppo impacciati. Quasi quasi non ci crediamo nemmeno che ci stia ascoltando. Infatti, per noi preghiera è sostanzialmente richiesta. Se non abbiamo niente da chiedere, siamo perduti. Ci sembra di perdere tempo.
Non sia così. Preghiera è anche ringraziamento, lode, intercessione, richiesta di perdono… Non ne siamo capaci? E allora cerchiamo di imparare!
Non c’è insegnamento che non implichi un apprendimento. E poi anche la verifica.