Delicatissima questa immagine che il ricco epulone, godereccio e insensibile, evoca chiedendo un minimo di pietà per sé che nella sua ricca vita non ebbe mai per nessuno.
Quella mano tesa, lurida forse e sicuramente stanca di chiedere sempre, non veniva mai presa in considerazione. Il disprezzo regnava in quella casa. Ora invece l’attenzione è addirittura su un particolare. La punta del dito di Lazzaro diventa il simbolo di un gesto d’amore, inumidire le labbra riarse, che viene parimenti negato.
Questa parabola mi scuote, sempre quando la medito. Scuote soprattutto noi che viviamo nell’abbondanza di una società opulenta, che sa nascondere così bene i poveri al punto di non accorgersi più della loro presenza. Ci siamo abituati alla loro presenza. Manco più a disagio ci fanno sentire. E sto parlando proprio di quelli che vediamo nel centro delle grosse città, quelli che si rannicchiano dentro sudicie coperte adagiati su sozzi cartonacci.
Ce ne sono ancora molti di mendicanti sulle strade, ma noi diffidiamo delle loro reali miserie; ci sono stranieri emarginati e disprezzati, ma noi ci sentiamo autorizzati a non condividere con loro i nostri beni. Dobbiamo confessarlo: i poveri ci sono di imbarazzo. Il teologo Giovanni Moioli di cui ho sentito una lezione poche settimane prima che morisse sosteneva che i poveri sono “il sacramento del peccato del mondo” sono il segno della nostra ingiustizia. E quandanche li pensassimo come segno-sacramento di Cristo (e ci impegnassimo ad aiutarli), sovente finiamo per dare loro le briciole tenendoli distanti da noi. Eppure nel giorno del giudizio scopriremo che Dio sta dalla parte dei poveri, scopriremo che a loro era indirizzata la beatitudine di Gesù, che ripetiamo magari ritenendola rivolta a noi. Siamo infine ammoniti a praticare l’ascolto del fratello nel bisogno che è di fronte a noi e l’ascolto delle Scritture, non l’uno senza l’altro: è sul mettere in pratica qui e ora queste due realtà strettamente collegate tra loro che si gioca già oggi il nostro giudizio finale.