Nel discorso programmatico pronunciato nella sinagoga di Nazaret, Gesù fa riferimento a due episodi narrati nel Primo Testamento: la vedova e il siro. È il suo modo di difendersi dal rifiuto e dalla ostilità dei suoi.
La vicenda della vedova è ambientata a Sarepta, nella zona controllata dalla città-stato di Sidone, nell’ odierno Libano. Si tratta di due gesti di misericordia.
Da un lato, infatti, c’ è la generosità di questa donna, ridotta allo stremo in un tempo terribile di carestia: sta raccogliendo legna per attizzare il fuoco per un ultimo pranzo perché le è rimasto solo un pugno di farina e un po’ d’ olio. Pensa di preparare una focaccia per sé e per il ragazzo: «Ne mangeremo e poi moriremo». D’ altro lato, Elia ricambierà la bontà di questa vedova in un modo ben più grandioso e inatteso. Sarà mediatore dello spirito di vita che il Signore riporta nel figlio stroncato da un malore.
La finale del racconto è dominata da una sorta di professione di fede di questa vedova pagana: «Ora so veramente che tu sei uomo di Dio e che la parola del Signore nella tua bocca è verità» (17,24). Similmente Naaman, re straniero, colpito dalla lebbra. Ascolta il parere della sua serva e obbedisce alla richiesta del Signore di immergersi sette volte nel fiume giordano. Lo fa e guarisce.
Due stranieri, due pagani dimostrano più fede dei figli di Abramo, figli del popolo di Israele.
Nelle parole di Gesù c’è tutta la fragilità di una fede, quella giudaica ormai usurata e svuotata di amore. Sta su, come un ponticello di pietre molto instabile pronto a crollare da un momento all’altro.