Oggi lascio la parola al card. Ravasi che su “Il sole 24 ore” una volta scrisse così:
«Tra la curiosità dei passanti, in quel giorno di aprile forse dell’anno 30, avanzava un picchetto militare romano guidato da un centurione, l’exactor mortis, colui che avrebbe dovuto verificare l’avvenuta esecuzione capitale di quel condannato, il galileo Gesù di Nazaret, che trascinava a fatica sulle spalle il patibulum, ossia la trave trasversale che sarebbe stata imposta al palo verticale, già conficcato nel terreno del piccolo colle, il Golgota, in aramaico «cranio», in latino calvarium, luogo della crocifissione. Su quella scena potremmo far scorrere in sovrimpressione le emozionanti immagini del Cristo che porta la croce affaticandosi a procedere nella neve striata dal sangue che cola dalle ferite delle precedenti torture inflitte dai soldati romani, così come ce le ha proposte Andrej Tarkovskij nel suo mirabile film Andrej Rublëv (1966). Alla fine lo spettacolo macabro, purtroppo sempre gradito a una piccola folla di sadici repressi, si conclude con la crocifissione e la relativa morte per soffocamento del condannato. Sull’asse verticale della croce, in una placca, è collocato il titulus, ossia il capo d’imputazione, scritto in latino, la lingua ufficiale, in greco, la lingua allora internazionale e nell’ebraico locale: «Gesù nazareno re dei Giudei», che
diverrà nei secoli successivi l’acronimo INRI (Jesus Nazarenus Rex Iudeorum). Il Crocifisso, prima di spegnersi, emetterà sette ultime frasi che, secoli dopo, nella musica di Haydn diverranno un emozionante lamento universale, mentre per la fede
dei cristiani saranno sempre l’estremo testamento del loro Dio che muore. Nessuno in quel pomeriggio primaverile gerosolimitano – era l’ora nona, cioè le tre pomeridiane – avrebbe immaginato che quella scena tragica, non rara durante il ferreo regime del governatore imperiale della Palestina Ponzio Pilato, sarebbe divenuta un vessillo simbolico destinato ad attraversare i millenni. Quella croce si sarebbe trasformata per l’intera cultura occidentale in un «soggetto planetario»